Alessandro Mattia Mazzoleni |
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Alessandro Mattia Mazzoleni: Alessandro Mattia Mazzoleni, che ha manifestato fin da piccolo il suo talento, è un artista concettuale contemporaneo che ha posto, attraverso le opere pittoriche in rilievo (realizzate con cartone, cerniere e altri materiali) la questione dello spazio nella sua dimensione filosofica, estetica e sociale. Questo artista non intende lo spazio come piano che incornicia l’apparizione e il risalto delle forme.Il suo interesse è rivolto al funzionamento e alle potenzialità dello spazio stesso, sia quello osservabile ed esterno, sia quello della coscienza umana. Inizialmente, quindi, egli si concentra sui rapporti tra intelletto e percezione, come pure sulle qualità e azioni che scaturiscono dallo spazio (visibile e immaginario, misurabile e incalcolabile, fisico e ipotetico, svelato in ciò che mostra ma anche in quello che cela e simbolizza). Alessandro Mattia Mazzoleni cerca di mettere in luce, con la problematicità delle sue riflessioni, i modi in cui lo spazio abbinato al tempo acquista sostanza. Cerca, in altre parole, di portarci al problema delle convenzioni dell’arte, che gli autori (soprattutto gli artisti più importanti del XX secolo), affrontarono con il desiderio di indicare (attraverso opere bi- o tridimensionali) la sostanza polivalente dello spazio-tempo nella quarta dimensione. Ogni opera di Alessandro Mattia Mazzoleni funziona come un teorema geometrico e allo stesso tempo metafisico, il quale si rivela come enigma esistenziale conservando tuttavia la cripticità delle sue semantiche. La “natura” dello spazio si identifica qui con la “natura” della consapevolezza e, per analogia, il macrocosmo con il microcosmo, allorché l’artista apre un dialogo con i suoi predecessori negli hommages (per esempio con Mondrian, Miró, De Kooning, Fontana, Tàpies, Mastroianni, Arman, César) non semplicemente per legarsi ai “cordoni ombelicali” degli interrogativi che essi posero con le loro opere, ma per “leggere” lui stesso quelle opere in modo differente, come una serie di “ipotesi”, decodificazioni e rimandi che trasforma però attraverso il suo personale linguaggio espressivo. In questo modo Alessandro Mattia Mazzoleni crea una sorta di “attualizzazione” e valorizzazione delle riflessioni di quegli artisti. D’altra parte, perché un’opera d’arte acquisisca durevolezza nel tempo offrendo una conversazione aperta con quello che ogni volta è il presente, ha bisogno del rapporto dialettico da cui emerge anche la dinamica di datrice di significato che ciascuna opera contiene nel nucleo delle sue problematiche. Nel passato, gli artisti si sono occupati in particolare dei meccanismi della rappresentazione, di come si potessero “tradurre” nelle arti visive con elementi forgianti. Ancora nel Rinascimento lo spazio della raffigurazione si basava sui saggi dei filosofi e sui prontuari delle loro teorie, come quelli di Euclide, Vitruvio, Lucrezio, Brunelleschi, Alberti. Dopo altri “rinascimenti” di tale eredità mondiale, l’arte contemporanea si è accaparrata come esperienza viva il presente, e lo ha trasformato in uno strumento per lo studio dell’“immagine”. “Makeit new”, ha detto Ezra Pound riferendosi alla rivalorizzazione del passato. D’altronde è evidente che i tentativi che compiamo per cogliere il carattere di transizione del nostro tempo avvengono nell’ambito del moderno, che cerca di cancellare le proprie mancanze con la convenzione postmoderna. Tanto Hannah Arendt nel libro Tra passato e futuro quanto J. F. Lyotard in La condizione postmoderna propongono come processo transitivo verso il rapporto postmoderno conoscitivo e pratico dell’uomo con il mondo, quello agonistico (ossia quello dei rivolgimenti, delle rotture, delle revisioni e della riorganizzazione o riforgiatura dei rapporti e dei rimandi dell’immagine). Hannah Arendt, anzi, sosteneva che ogni nuova generazione ha il dovere di riscoprire l’attività del pensiero. Per portare a compimento questo tentativo ricorriamo alla tradizione o viviamo la sua rovina con la crisi della cultura. Tuttavia non si dovrà (per quanto possiamo desiderarlo o meno) riallacciare il filo interrotto della tradizione né inventare qualche surrogato ultramoderno. Dobbiamo esercitare il pensiero per muoverci sopra la frattura. Se la definizione di moderno appare (attraverso un processo di demolizione) come separazione-frazionamento in singoli valori, ossia scissione del “materiale” tradizionale in sfere autonome di valori, davvero la caratteristica del moderno è la sottomissione della volontà artistica al rapporto tra presenza e funzione dell’“immagine”. Sul piano della percezione, poi, c’è la corrispondente sottomissione ai meccanismi di “riproduzione” dove il cosmo diventa immagine, dato che l’uomo contemporaneo crea ormai questo mondo come soggetto, nella misura in cui lo rappresenta o ne indica il pensiero. Quindi le arti non si limitano a restituirci il visibile, ma ci fanno vedere il visibile (P. Klee). Gli artisti contemporanei si liberano della tirannia dell’immagine spingendosi, come Alessandro Mattia Mazzoleni, all’immediatezza dell’universo spaziale. Questo artista è consapevole di dover “rendere manifesti” i valori delle cose che naturalmente non sono presenti nell’opera, quindi rovescia i dati della vista in modo da rendere visibile la fattualità di ciò che il piano nasconde per cui diventa necessario l’invisibile, perché non c’è soltanto l’occhio ma anche la mente che vaga, lavorando ormai oggi nello spazio virtuale, l’espace virtuel in cui d’altronde si sono mosse tutte le correnti riformatrici, il futurismo e il cubismo e Marcel Duchamp. Dato questo ragionamento, Mazzoleni non avvia a caso i suoi dialoghi figurativi, per esempio con Mondrian che nelle sue opere ha disposto questo piano figurativo in modo ritmico e di plasticità del colore; così anche con De Kooning (il quale ha riscoperto, rendendo attivo e imprimendo il gesto umano, tale piano pluridimensionale) o con Tàpies (che ha dato fondamenti ontologici autonomi ai residui dell’esperienza umana innestandoli con una dimensione metafisica). Con questa sua mostra, Mazzoleni arriva in un Paese, la Grecia, in cui la questione dello spazio e delle possibilità della sua “rappresentazione” ha impegnato gli artisti fin dai tempi antichi. Qui vorrei accennare brevemente al fatto che nell’antichità lo spazio e i modi in cui venivano espresse o suggerite le sue funzioni si identificavano con la lingua stessa, come si nota dalla grammatica (con i casi, per l’interezza del nominativo dell’“io”), dai tempi e dalla coniugazione dei verbi, riguardo alle determinazioni di spazio e tempo del soggetto; lo si nota, inoltre, nelle attività e nelle azioni di tale soggetto, che d’altronde fissavano la dimensione esistenziale delle sue volontà o dei suoi atti. Tuttavia, prima del bipolarismo soggetto-oggetto, che riceve e mostra le conseguenze dell’atteggiamento dell’uomo come pure delle sue azioni visuali o gestionali, c’era il pensiero del mito, in cui l’esistenza di esseri formati presupponeva uno spaziotempo generatore. Tanto il suddetto spaziotempo quanto i suoi “frutti ontologici” si distinguevano per le loro caratteristiche manifestando, con la loro presenza allegorica, proprietà, fenomeni, attività e situazioni costituzionali di azioni o conseguenze che potevano, in quanto funzioni, condurre al piano figurativo, trasformando l’ambiente e insieme la coscienza umana, dal momento che nel pensiero antico – attraverso le opere d’arte – l’uno rifletteva l’altra. Un pensiero secondo cui la realtà terrena si rispecchiava in quella celeste in un modo proporzionale, e la realtà visibile era connessa a quella celata. Nelle opere d’arte dell’antichità (rappresentazioni in rilievi e su vasi giunte fino a noi), inizialmente lo spazio “viene segnato” in modo allusivo e indicativo, poi in modo simbolico e allegorico, mentre più tardi con una verosimiglianza realistica di un genere tale che comprende anche l’utopia (questo spazio cioè non fissa il dove, il quando e il perché della “presenza”, minando così in una certa misura l’illusione della razionalizzazione), affinché la verosimiglianza (sempre accompagnata dalla possibilità dell’inganno) sia “rappresentata” come la questione eterna, che acquista durata nel tempo. Un tempo che nelle opere d’arte bizantine appare come avente doppia natura, come “qui e ora”, “ora e sempre”, poiché questo è uno spaziotempo liturgico. Attraverso le icone bizantine, insomma, vengono portati alla luce il passato, il presente e la dinamica del futuro, in un piano atemporale da cui appaiono le forme “sante”. Per questo nella maggior parte delle icone lo sfondo è d’oro, a riflettere la luce della profondità sulla superficie, la quale illumina ma allo stesso tempo comprende nei suoi riflessi l’individuo che di volta in volta le si avvicina e si “co-raffigura” in un rapporto interattivo. Di conseguenza l’“immagine” rappresentata, frutto della tenebra e della luce, del tempo e della diacronia, della storia e della metastoria, in quanto spostamento spaziotemporale iscrive nell’ipoteca della sua presenza anche il “contributo” del retroterra di ogni “se stesso” che conversa e partecipa al compimento del significato liturgico dell’icona bizantina. Se ho menzionato i segni caratteristici delle opere d’arte dell’antichità e dell’età bizantina è perché intravedo alcune affinità tra i loro principi filosofici ed estetici e quelli che individuo nella riflessione di Alessandro Mattia Mazzoleni, che li esprime nelle sue opere con un modo contemporaneo di “scrittura” figurativa. D’altra parte, in opere precedenti, Mazzoleni sulle superfici usa l’oro in rapporto con il nero (la tenebra), come pure i colori. Ogni opera di Mazzoleni si presenta come una “questione di lavoro”. Tale “questione” riguarda lo spazio di proiezione ma anche di ipoteca del processo di foggiatura, con le coordinate che lo delimitano ma allo stesso tempo lo espellono mettendo a rischio le sue “identità”, quali esse siano. “Identità” che tante cose celano quante ne “mostrano”, lasciando che occupino il loro posto punti interrogativi sospesi intorno all’“elasticità” della dinamica che lo spazio acquista aprendo e chiudendo intuitivamente i suoi difficili misteri. Nelle sue opere, quindi, lo spazio funziona come una grandezza matematico-fisica, come un vettore psico-sentimentale e come mezzo di trasporto delle correlazioni che include una sorta di universo eracliteo “in perenne movimento”. Questo universo suggerisce, attraverso le cerniere che l’artista usa, la consapevole sollecitazione della volontà dello spettatore, affinché costui cerchi (dietro, davanti e dentro ogni opera) le proprietà e possibilità frazionate che lo spaziotempo di Alessandro Mattia Mazzoleni gli offre e, insieme con questo spaziotempo, le domande esistenziali e la nuova ottica delle riflessioni che la sua “immagine” astratta, dalla “geometria” contemporanea anisotropa, “rappresenta” come una parola di saggio figurativo. Athenà Schinà |
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